giovedì 15 settembre 2011

I due pugili


Immaginiamo due pugili dilettanti. Entrambi aspiranti professionisti. Il pugile A è aggressivo e diretto. La su impostazione che non è dettata dal bisogno di difendersi, costituisce piuttosto un punto d'attacco. Tiene la guardia bassa o avanzata o aperta, dipende da come intende mettere a segno il prossimo colpo. Perché in fondo è di questo che si tratta prendere a pugni l'avversario e se prende colpi anche lui, pazienza. La capacità di incassare le batoste, in fondo, è motivo d'orgoglio. L'obiettivo è dare tutto e rimanere in piedi fino all'ultimo.



Non ha paura di nulla. Lo sport potrebbe diventare il suo mestiere, ma sa che la sconfitta fa parte del gioco ed ha imparato ad accettarla. Può convivere con la sconfitta se pensa di aver dato tutto sul ring, perché sa che probabilmente combatterà ancora e se non dovesse accadere, beh, in fondo è solo uno sport. Non gli interessa l'avversario, né quello che gli farà. E' solo un altro combattente come lui. E se sarà più forte, vincerà.

Il pugile B la vede come una questione di sopravvivenza. Anche per lui essere l'ultimo dei due pugili a restare in piedi è fondamentale, ed è esattamente per questo che vuole assicurarsi di rimanere coperto, sempre con la guardia alta. Sa che, fin quando è in piedi e ne ha la forza, c'è la possibilità di sferrare il colpo del KO e per questo è paziente. Non ha fretta di vincere. Sopravvivere per lui è sufficiente. Nel frattempo aspetta il momento giusto: l'errore dell'avversario, l’unico raggio di sole che gli da la possibilità di mettere a segno il colpo. Sa tutto dell'attacco e del contrattacco di come usare la forza dell'avversario a suo vantaggio. 

Ha un’insicurezza congenita. La paura di perdere lo tiene sveglio la notte, lo terrorizza. Non riesce a non pensarci. Ha lavorato talmente tanto per diventare un pugile che non può permettersi di fare un passo falso e vedersi sfuggire dalle mani il sogno di diventare professionista. La boxe è sopravvivenza, e per sopravvivere hai bisogno di ogni possibile vantaggio. 

Il pugile B studia l'avversario con precisione maniacale, in allenamento si spinge sempre al limite analizzandosi di continuo. La sua strategia è efficace? L'allenamento abbastanza intenso? Che il suo avversario abbia un asso nella manica? prima di salire sul ring immagina tutti i possibili scenari. L'incontro spesso si vince prima ancora del gong e il pugile B sa che se sarà più intelligente dell'avversario vincerà.

La fondamentale differenza di mentalità che differenzia i due pugili si può riassumere così "per il pugile A la boxe è gioco per il pugile B è un lavoro".

Nella psiche del pugile B c'è un certo tipo di tensione nervosa instillata fin da giovanissimo, con il risultato che quando sale sul ring, preferirebbe essere da qualche altra parte. Per lui è un lavoro. Non è divertimento, non è gioco. Gli manca la gioia interiore. È' come se non fosse contento di fare il pugile. E' concentrato, totalmente assorbito, e non ha altri pensieri. Sin da piccolo il pugile B si allenava senza mai sorridere impegnato solo ad aggredire l'avversario, forte, disciplinato. Niente concessioni allo spettacolo, si gioca per vincere e basta. E se si deve barare, si bara. Se lo sport è visto come lavoro l'obiettivo è centrare il risultato, ossia vincere. Non importa come. Quando è visto come gioco l'obiettivo è competere, lottare dare il cento  per cento. Il pugile proviene da una cultura più razionale. E' più aperto all'analisi e all'introspezione al calcolo.

Il pugile A è più bellicoso passionale per lui ogni cosa è vista come un duello vecchio stile, Il pugile B calcola pensa alle cose, fa il possibile per tutelare i propri interessi.

Se il pugile A avesse dominato l'avversario per dodici riprese per poi farsi sorprendere e finire inaspettatamente al tappeto, sarebbe distrutto dalla sconfitta ma la accetterebbe, a patto di sentire di avere dato il 100% sul ring. Se la stessa cosa accadesse al pugile B sarebbe un disastro. Avrebbe recriminazioni di ogni genere e rivivrebbe nella sua mente quell'incontro infinite volte. Lo vedrebbe come una sua sconfitta piuttosto che come una vittoria dell'avversario.

Questo lungo brano è tratto da un libro scritto a quattro mani da Gabriele Marcotti e Gianluca Vialli e intitolato "The Italian Job". Si stiamo proprio parlando di quel Vialli calciatore e allenatore di football. Nonostante la distanza siderale che mi separa dal mondo del calcio ho trovato la lettura di questo libro, sotto certi aspetti, molto interessante. Nell'analizzare le differenze dei due modi di fare e intendere il gioco del pallone, quello di scuola Italiana e quello di scuola inglese, Vialli  si addentra nella psicologia dell'atleta in senso lato regalando vari spunti di riflessione.

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