giovedì 31 luglio 2025

Il pragmatismo può frenare l’evoluzione del grappling - Pragmatism can hold back grappling’s evolution


Negli ultimi anni, la comunità del Brazilian Jiu Jitsu e del grappling ha iniziato a interessarsi in modo crescente all’approccio ecologico-dinamico per l’acquisizione delle abilità motorie. Questo paradigma, fondato sulla teoria dei sistemi complessi, propone che le abilità si sviluppino in ambienti che presentano problemi reali da risolvere, anziché tramite esercizi lineari, prescrittivi e decontestualizzati. In altre parole, si impara lottando attraverso giochi vincolati.

 
In un recente podcast: "Scientific literacy and skill acquisition with Job Fransen and Josh Vogel", Job Fransen, accademico presso la Charles Sturt University in Australia e specialista in skill acquisition, ha espresso posizioni prudenti, se non apertamente critiche, verso l’“estremismo ecologico”. Secondo Fransen, gli allenatori dovrebbero:

    Non farsi trascinare da mode teoriche prima che la ricerca scientifica sia sufficientemente robusta.

    Affidarsi all’esperienza e all’intuizione, perché spesso ciò che funziona in palestra non coincide con ciò che è scritto nei paper.

    Considerare l’approccio ecologico come un semplice strumento nella cassetta degli attrezzi, e non come dogma.

    Dare priorità a ciò che mantiene gli atleti in palestra, anche a costo di sacrificare un addestramento in scenari di caos realistico.

Fransen arriva persino a dire: «Continua a fare quello che stai facendo. Stavi già lavorando benissimo prima di sentire parlare dell’ecological dynamics».


Le argomentazioni di Fransen hanno un fascino immediato: l’esperienza degli allenatori, la sostenibilità economica dei club e la cautela scientifica sono valori difficili da contestare. Tuttavia, questa posizione rischia di cristallizzare pratiche obsolete e di trasformare l’esperienza in un freno al progresso, invece che in uno stimolo a mettere in discussione le abitudini consolidate.

È vero che la scienza è imperfetta, ma il pragmatismo cieco ha storicamente ritardato ogni innovazione sportiva. La stessa ammissione di Fransen:«la ricerca ci porta prove solide che l’approccio dell’ecological dynamics è migliore rispetto al metodo standard», smonta in parte il suo invito a “continuare come sempre”. Se un approccio è già superiore, persistere nel vecchio non è prudenza è conservazione.

Fransen insiste sul fatto che “non tutti gli atleti apprendono allo stesso modo”. Un’osservazione ovvia, che però rischia di essere una scappatoia epistemica: qualunque metodologia, se messa sotto questa lente, può essere accusata di non funzionare universalmente.

La vera domanda dovrebbe essere: La teoria su cui si fonda l’ecological dynamics riflette la realtà dei sistemi biologici complessi?

Se la risposta è sì, e la scienza attuale indica che l’apprendimento motorio non segue logiche deterministiche meccanicistiche, allora il principio ecologico non è “un’opzione nella cassetta degli attrezzi”, ma un cambio di paradigma. In quest’ottica, tornare a insegnare tecniche decontestualizzate in scenari collaborativi non è “adattabilità”, ma contraddizione metodologica.


Fransen propone che il CLA (Constraints-Led Approach) sia solo uno strumento tra tanti. Ma se si accetta la teoria ecologico-dinamica, la scelta di allenare seguendo anche un approccio lineare e prescrittivo significa negare il presupposto stesso per cui le abilità emergono dalla risoluzione di problemi complessi in contesti variabili.

Un altro punto critico è l’idea di offrire esperienze “piacevoli” per garantire la fidelizzazione. Fransen sembra suggerire che, se un approccio all’apprendimento motorio scoraggia alcuni praticanti, forse non conviene applicarlo rigidamente.

Ma questo argomento si avvicina pericolosamente a una logica commerciale più che pedagogica: seguendo questa linea, si potrebbero proporre classi di BJJ “soft”, in cui si illude il principiante di imparare a lottare senza mai affrontare il caos del combattimento reale. L’approccio ecologico-dinamico, al contrario, non fa sconti: richiede di imparare a risolvere problemi motori sotto pressione, perché è lì che nasce la competenza reale.


Fransen chiude affermando che “anche se l’ecological dynamics è superiore, non vuol dire che sia il modo migliore per allenare tutti”. Un’affermazione che confonde il presente con un futuro ipotetico.

Sì, la scienza continuerà a evolvere e nuovi modelli emergeranno. Ma rimanere ancorati a metodi che mostrano evidenti lacune solo per “fidarsi dell’intuizione” significa rinunciare a guidare il cambiamento e accontentarsi di inseguirlo.

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In recent years, the Brazilian Jiu-Jitsu and grappling community has shown a growing interest in the ecological dynamics approach to motor skill acquisition. This paradigm, grounded in complex systems theory, proposes that skills emerge in environments presenting real problems to solve, rather than through linear, prescriptive, and decontextualized drills. In other words, athletes learn to fight by engaging in constraint-based games.

In a recent podcast, Scientific Literacy and Skill Acquisition with Job Fransen and Josh Vogel, Job Fransen, an academic at Charles Sturt University in Australia and a specialist in skill acquisition, voiced a cautious, if not openly critical, stance toward “ecological extremism.” Fransen suggests that coaches should avoid being swept up by theoretical trends before scientific evidence is robust enough to justify them, trust their experience and intuition because what works on the mat often doesn’t mirror what is written in research papers, treat the ecological approach as just another tool in the coaching toolbox rather than as dogma, and prioritize whatever keeps athletes coming back to the gym, even if that means sacrificing realistic, high-chaos training scenarios. He even goes so far as to say: “Keep doing what you’re doing. You were already doing great work before you ever heard about ecological dynamics.”

Fransen’s arguments carry an immediate appeal: coaches’ experience, the financial sustainability of gyms, and scientific caution are all hard to dismiss. Yet this stance risks cementing outdated practices and turning experience into a brake on progress rather than a driver of innovation. It is true that science is imperfect, but blind pragmatism has historically delayed nearly every major advancement in sport. Even Fransen’s own admission: “Research gives us solid evidence that the ecological dynamics approach is superior to the standard method”, undermines his advice to just keep doing what you are doing. If one approach is already better, persisting with the old one is not prudenceit is the preservation.

Fransen repeatedly emphasizes that not all athletes learn the same way. While obvious, this observation risks becoming an epistemic escape hatch: under that lens, any methodology can be dismissed for failing to work universally. The real question is whether the theory underlying ecological dynamics accurately reflects the behavior of complex biological systems. If the answer is yes, and current research suggests motor learning does not follow deterministic, mechanistic rules, then ecological dynamics is not merely another tool in the box. It represents a paradigm shift. From this perspective, reverting to isolated, cooperative technique drills is not adaptability; it is a methodological contradiction.

Fransen frames the Constraints-Led Approach as one option among many. But if one accepts the ecological-dynamic view, deliberately incorporating linear, prescriptive training undermines the very premise that skill emerges from solving complex, variable problems. Another critical point is Fransen’s argument for providing pleasant experiences to retain students. He implies that if certain training methods discourage practitioners, they may not be worth applying rigidly. Yet this reasoning veers dangerously close to a commercial rather than pedagogical logic. Taken to its extreme, it could lead to “soft” BJJ classes that give beginners the illusion of learning to fight without ever confronting the chaotic reality of live combat. Ecological-dynamic training does not offer such comfort. It demands that athletes solve motor problems under pressure, because that is where true skill emerges.

Fransen ultimately concludes that even if ecological dynamics is superior, that does not mean it is the best way to train everyone. This statement blurs the line between the current state of evidence and a hypothetical future in which new paradigms might emerge. Yes, science will continue to evolve, and new models will arise. But clinging to methods with clear limitations, under the banner of trusting intuition, is not leadership in coaching. It is choosing to trail behind change rather than guide it.

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