Lo sviluppo di una vera abilità lottatorie, ossia la capacità di risolvere problemi reali in tempo reale, può avvenire solo attraverso l’interazione significativa con l’ambiente in cui quella stessa abilità trova applicazione concreta. Nel grappling, quell’ambiente è definito da un avversario che reagisce e oppone resistenza.
Lontano da questa realtà dinamica, ogni esercizio perde inevitabilmente la sua connessione funzionale con la lotta vera e propria. Ecco perché i cosiddetti solo drills non possono essere considerati strumenti di acquisizione della skill, intesa come competenza adattiva nel combattimento. Questi esercizi, infatti, costruiscono capacità fisiche generali, non abilità contestualizzate. Nessun intervento al di fuori del grappling con un partner ha effetto sulle skills. Muoversi su una materassina imitando i movimenti degli animali o i movimenti del grappling può allenare il corpo, ma non lo prepara a rispondere a un avversario vivo, reattivo e imprevedibile.
Il grande equivoco, dunque, consiste nel credere che il movimento perfetto, eseguito in assenza di resistenza, equivalga a un’abilità trasferibile. Ma muoversi bene non significa necessariamente combattere bene. La forma, se separata dal contesto tattico, diventa un’illusione estetica: un shrimp eseguito in palestra senza pressione è un esercizio ginnico, mentre lo stesso movimento, quando usato per uscire da uno side control sotto la spinta e la resistenza di un avversario agonista, diventa un’azione emergente, frutto di lettura, percezione e adattamento. È un po’ come imparare a nuotare fuori dall’acqua: si possono rafforzare le braccia, ma nulla prepara davvero al mare se non l’acqua stessa, con le sue correnti, la sua imprevedibilità.
I coach che abbracciano la prospettiva ecologica non demonizzano i solo drills, ma ne mettono in discussione l’uso pedagogico distorto. Il rischio, infatti, è duplice: da un lato, si creano pattern motori “sterili”, ossia scollegati dal contesto reale del combattimento; dall’altro, si sottrae tempo prezioso alla pratica con partner, che è l’unica in grado di fornire quegli affordances, segnali percettivi e situazionali, da cui scaturisce la vera abilità. Allenarsi senza un avversario significa rinunciare al 90% delle informazioni utili per prendere decisioni significative.
Le abilità sono specifiche al contesto in cui vengono apprese. E il contesto del grappling è, per definizione, l’interazione con un altro corpo.
La differenza tra capacità e abilità è, a questo punto, sostanziale e ineludibile: mentre la prima riguarda la preparazione fisica generale, la seconda è frutto di un continuo processo di percezione e azione, che può avvenire solo attraverso la lotta viva. Un atleta può diventare agile, forte e coordinato facendo cento shrimp al giorno per tre mesi, ma al momento della verità, sotto la pressione di un avversario determinato, potrebbe trovarsi paralizzato, incapace di leggere la situazione e reagire. Al contrario, un altro atleta che si allena quotidianamente in situazioni realistiche, anche per pochi minuti, dove l’avversario oppone resistenza variabile e pone problemi tattici concreti, svilupperà quella intelligenza motoria che nessun esercizio isolato potrà mai insegnargli.
Per questo motivo, l’alternativa proposta dall’approccio ecologico è radicale nella sua semplicità: meno tempo passato a ripetere movimenti a vuoto, più tempo dedicato a giochi con vincoli che obblighino l’atleta a percepire, interpretare e adattarsi. Si tratta di dire No all'idea che i movimenti basilari del grappling possano essere appresi, compresi e trasferiti attraverso una pratica decontestualizzata.
Il grappling è un dialogo tra due corpi. Non puoi imparare una lingua esercitandoti a parlare da solo allo specchio. La lotta è comunicazione, improvvisazione, problem solving. E per impararla davvero, bisogna entrare nella conversazione, non limitarsi a ripetere frasi a memoria.
La prossima volta che ti trovi a eseguire uno shrimp, domandati con onestà: sto costruendo una capacità o sto sviluppando un'abilità? La risposta potrebbe trasformare il tuo modo di allenarti, e forse anche il tuo modo di combattere.
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The development of true grappling skill, meaning the ability to solve real problems in real time, can only happen through meaningful interaction with the environment where that skill is actually applied.
In grappling, that environment is defined by a live opponent who resists, reacts, and constantly changes the situation.
Without this dynamic reality, every drill inevitably loses its functional connection to actual combat.
This is why so-called solo drills cannot be seen as tools for building real skill, at least not if we define skill as adaptive competence in fighting. These drills can help develop general physical abilities, but they do not build skills that are rooted in real context. Nothing done outside of live training with a partner has any true impact on skill development. Crawling on the mat or mimicking grappling movements might train the body, but it does not prepare it to respond to a live, reactive, and unpredictable opponent.
The major misconception is believing that perfect movement, when performed without resistance, somehow becomes a transferable skill. But moving well does not automatically mean fighting well. Form, when separated from tactical context, becomes a visual illusion. A clean shrimp performed on an empty mat is just a physical exercise. That same movement, when used to escape side control under the pressure and resistance of a skilled opponent, becomes an emergent action driven by perception, timing, and adaptation.
It is similar to learning how to swim on dry land. You might build muscle, but nothing prepares you for the ocean except being in the water itself, with its currents and unpredictability.
Coaches who embrace the ecological approach do not reject solo drills completely, but they do challenge the way these drills are often used. The danger lies in two key areas. First, these exercises can create sterile movement patterns that have no connection to real fighting scenarios. Second, they take valuable time away from partner-based training, which is the only setting that provides the perceptual and situational information from which real skill emerges. Training without an opponent means losing most of the information needed to make meaningful decisions.
Skills are always specific to the environment in which they are developed. And in grappling, that environment is defined by interaction with another body.
At this point, the difference between capacity and skill becomes crucial. Capacity refers to general physical preparedness. Skill is the result of a continuous process of perception and action that can only happen through live training. An athlete can become strong, agile, and coordinated by doing one hundred shrimps a day for three months. But under pressure, facing a resisting opponent, they may freeze, unable to read the situation or respond effectively. On the other hand, an athlete who trains daily in realistic scenarios, even briefly, where the opponent offers resistance and tactical challenges, will develop the kind of movement intelligence that no isolated drill can teach.
This is why the ecological approach offers a simple yet radical alternative. Spend less time repeating disconnected movements, and more time in constraint-based games that force the athlete to perceive, interpret, and adapt. The idea that the core movements of grappling can be learned and transferred through decontextualized repetition needs to be left behind.
Grappling is a conversation between two bodies. You cannot learn a language by talking to yourself in front of a mirror. Fighting is communication, improvisation, and problem-solving. To truly learn it, you need to join the conversation, not just memorize lines.
So the next time you are doing a shrimp, ask yourself honestly: am I building a capacity, or developing a skill? The answer might change the way you train, and possibly the way you fight.
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